Posto “a meta strada tra la terra e il cielo”, Amendolea, frazione di Condofuri, è uno dei siti più affascinanti dell’intera regione. Il borgo sorge su uno sperone roccioso che guarda la fiumara omonima, nel punto in cui questa riceve la fiumara di Condofuri, formando la penisola della Rocca del Lupo.
Il primo documento noto del borgo ricorda una controversia scoppiata nel 1099 per la spartizione di Amendolea e Bova, conquistate trent’anni prima dai fratelli Framundo e Riccardo di Losdo, compagni di Roberto e Ruggero d’Altavilla. In conseguenza della morte di Framundo, Riccardo, divenuto amministratore dei beni del fratello, fu però restio a trasferire il feudo di Bova al nipote Gugliemo, il quale, per ottenerne la restituzione, si rivolse con successo al Sovrano. Amendolea rimase quindi a Riccardo, che dovette accontentarsi di un feudo più piccolo. Risale a questo periodo la realizzazione della torre mastio sul lato Nord dello sperone roccioso, illuminata da due grandi finestre arcere, una delle quali ostruita, nella metà del secolo successivo, durante la costruzione del nuovo donjon. Tra il XII secolo e la metà del Duecento si datano il torrione sul lato opposto e il grande palacium castri, dove nel corso del XII secolo sappiamo risiedeva Agnese di Couternay, esponente di una delle più influenti famiglie normanne del Regno di Gerusalemme. Suo nipote, Guglielmo Amendolea, entro in contrasto con che Federico II, il quale gli confiscò i beni, riavuti solo nel 1268 da Carlo d’Angiò. Il prestigio della casata è ben documentato nell’anno 1326, quando Giovanni Amendolea, sposo di una rampolla di casa Ruffo, si trova a Firenze al fianco di Carlo duca di Calabria. Con l’avvento degli Aragonesi il castello passò dai De Balzo ai Toraldo. Un nuovo passaggio di proprietà avvenne nel 1459, quanto Ferrante di Aragona punì Antonello Amendolea per aver sposato la causa angioina, concedendo i suoi beni a Berengario Maldà de Cadorna. È in questo momento che emerge a Napoli la figura del figlio di Antonello Amendolea, Coletta, poeta volgare alla corte di Alfonso d’Aragona, noto per ballate, barzellette e strambotti, in cui, il ricordo della sua vallata, si riconosce nelle invettive, nella vivacità popolaresca e nella sua attraente e spericolata impudenza espressiva. Il poeta tuttavia non riebbe mai il castello calabrese, passato nel 1495 a Bernardino Abenavoli del Franco e in seguito ai Martirano (1528-32), ai Mendoza (1532-1597) ed infine ai Ruffo di Bagnara (1624), che lo mantennero fino al 1794, quando cessò di fungere da sede residenziale.