La storia di Gerace è strettamente collegata a quella di Locri Epizephiri. Il nucleo abitativo, infatti, nonostante esistano tracce di frequentazione in epoca pre-greca, greca e romana, si sviluppa solo in seguito all'abbandono della città di Locri, avvenuto a partire dal VII secolo d.C., a causa del sempre maggiore pericolo piratesco e la sempre crescente insalubrità delle coste. A questo spostamento dei Locresi dall'antico sito costiero verso l'interno è strettamente collegato anche il nome della cittadina che, a dispetto delle leggende che vogliono che esso sia legato ad un leggendario sparviero, in greco Ièrax, Ιέραξ, che avrebbe guidato i Locresi, inseguiti dai Saraceni, verso la rocca, pare dipendere dal nome della Diocesi di Locri, dedicata a Santa Ciriaca (Aghia Kiriaki, Agia Ciriaci, Αγία Κυριακή in greco).
Che la cittadina fosse da sempre strettamente collegata alla cristianità appare evidente non solo dal fatto che sia stata spostata, in realtà, la sede della Diocesi locrese ma anche dalla presenza innumerevole di chiese e monasteri anche infra muros, che ha contribuito a identificare la rocca come una sorta di Monte Santo.
Per la sua particolare posizione, però, Gerace divenne ben presto un centro di importanza eccezionale nella Calabria Meridionale; la possibilità di controllare i traffici costieri, la sua particolare conformazione orografica che permetteva una naturale fortificazione, fece sì che divenisse oggetto di attenzione sia dell'Impero bizantino che del regno di Sicilia. La presenza congiunta di tali potenze fece sì che il centro resistesse a lungo agli attacchi degli Arabi, che mantenesse una certa autonomia rispetto ai Normanni e che fosse, in seguito, oggetto di attenzione per i dominatori non solo dell'Italia ma di tutto il Mediterraneo. Testimonianza di tale importanza ne è la grande ed eccezionale (per qualità), quantità di architetture ecclesiastiche e laiche, frutto di committenze imperiali (Cappellone di San Giuseppe nella Cattedrale certamente svevo), regali (si pensi agli interventi normanni nel Castello, nella Cattedrale e in altre chiese sparse all'interno delle mura o alla Chiesa di san Francesco, voluta da Carlo II d'Angiò nel 1294); principesche e feudali.
Il corpo principale della fabbrica è di impostazione classica, con la trabeazione interamente in ghisa, composta da due colonne imponenti, alte ben 4.80 metri, e dall'architrave istoriato, volute dall'ingegnere Savino come elemento di distinzione, di particolarizzazione e di forza. Nell’atrio di ingresso due colonne e quattro semicolonne, sempre in ghisa, alte la metà di quelle esterne, compongono una serliana “spaziale”. La Fabbrica d’armi costituisce una delle prime testimonianze dell’uso in Italia della ghisa in edilizia.
La fabbrica quando entrò in produzione forniva all'esercito borbonico 2000-3000 armi annualmente, fino a 7000-8000 a pieno regime. Produceva fucili, pistole e spade.
Fu progettato anche un nuovo tipo di fucile a molla indietro, denominato difatti Mongiana che ha sostituito il vecchio modello francese 1842. Ignorata e penalizzata dopo l'Unità d'Italia, continuò la sua attività fino alla metà degli anni '60, dopo fu declassata a Officina trasformazioni e infine chiusa.
Oggi, la fabbrica è un luogo da visitare, facente parte dell'Ecomuseo delle Ferriere e Fonderie di Calabria, in fase di restauro. Riscoperta alla fine degli anni ’70 in stato di completo degrado, è stata oggetto di un lungo e accurato processo di recupero che nell'ottobre del 2013 è stato ultimato il restauro architettonico con l’allestimento del Museo delle Reali Ferriere Borboniche.